Lo chiamavano tutti Marzola, l'uomo fidato del fattore
e solo in pochi conoscevano il suo nome di battesimo.
Servizievole e sempre pronto a tentare di assolvere qualsiasi incarico,
era perennemente di buon umore, con quella sua aria furbesca e scherzosa,
la battuta facile senza mai essere sconveniente.
Attento e vigile, niente sfuggiva al suo controllo in quel piccolo universo
che era la "Mensa".
Teneva il conto dei tempi della cova, sapeva con esattezza quante botti
c'erano nella tinaia, quanti ferri aveva inchiodato il maniscalco, controllava
se il petrolio per i lumi era agli sgoccioli.
Marzola era l'ultimo a ritirarsi, dopo aver fatto il giro dei cortili
con qualsiasi tempo, per controllare i pollai, le scuderie, la rimessa
per gli attrezzi, dando la voce ai cani.
La sua mente fervida e fantasiosa era una fonte inesauribile di proverbi,
detti e filastrocche.
Raccontava di fantasmi che strepitavano nella torre colombaia, di cunicoli
sotterranei che conducevano chissà dove, di rane mostruose che risalivano
gli argini del fiume nelle notti di luna nera.
Nei misteriosi sussurri delle sere d'estate, così serene da poter quasi
toccare le stelle, insegnava ai bambini a distinguere la voce degli
uccelli notturni.
Per riempirli di meraviglia rapiva manciate di lucciole e le imprigionava,
al buio, sotto un bicchiere di vetro capovolto.
Certe volte li portava a caccia di fuochi fatui inventando che erano
le fiaccole dei folletti.
Era abilissimo a scovare nei campi e lungo i fossati le uova perdute
dalle faraone; a volte, assieme alle uova, portava pelli di biscia che
regalava in giro come infallibili portafortuna.
Sapeva cogliere i segni della natura e, scrutando il cielo con quei
suoi occhi piccoli dallo sguardo acuto, riusciva a prevedere dal movimento
delle nuvole come sarebbe cambiato il tempo.
Il volo basso e quasi rasente delle rondini gli aveva insegnato che
stava per scatenarsi un temporale.
Osservava gli aloni della luna e sapeva dire se la pioggia era vicina
o lontana; se poi il tramonto arrossava il cielo a ponente, per il giorno
dopo assicurava il bel tempo. Quando invece di giovedì sera il sole
affondava nelle nuvole, annunciava con aria solenne che, prima di sabato,
sarebbe piovuto.
Il fumo dei camini, il mutare in argento delle foglie dei pioppi e il
solitario lamento dell'assiolo erano i suoi segnatempo.
Marzola raccontava di un folletto che da più di tre secoli abitava alla
Mensa e aveva preso casa in cima alla torre colombaia in modo da poter
controllare da lassù tutto quanto accadeva attorno.
Esile e agilissimo indossava un saio legato in vita da un filo di canapa,
calzava pantofole di pelo di coniglio e si copriva il capo con un cappuccio
da cui spuntavano le orecchie sottili e appuntite.
Si nutriva delle uova che rubava nei pollai e, se riusciva ad intrufolarsi
in cantina, si ubriacava con il vino che sgocciolava dalle spine delle
botti per poi trascorrere la notte a far schiamazzi sui tetti in compagnia
delle civette.
Si divertiva a nascondere le cose per poi farle riapparire quando chi
le aveva smarrite ormai non le cercava più.
Nel corso della sua lunga presenza alla Mensa aveva conosciuto vescovi
e cardinali, nobili e borghesi facendo loro mille dispetti e derubandoli
di tutto: fibbie, gemelli da polso, monete e bottoni, che poi nascondeva
nel luogo delle cose perdute.
Con i bambini invece era gentile e vigilava sul loro sonno pronto ,
d'inverno, a rimboccare le trapunte se si fossero scoperti, d'estate,
a cacciar via gli insetti della notte.
Se si lasciava sorprendere dalla noia, andava a curiosare nell'aia e
nei cortili di Sabbioncello dove si manifestava sollevando un mulinello
di foglie. Le massaie lo riconoscevano e lo cacciavano via a colpi di
scopa e lui tornava alla Mensa a consolarsi rincorrendo le galline.
Marzola era già vecchio quando, ai nuovi nati, continuava a narrare
le sue favole bizzarre e le sue fantasie così piene di magica poesia.
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